sabato 26 novembre 2022

Masha Amini e le lotte in Iran

 Ci sono le ragazze che sanno piegare le camicie, le  canottiere e anche le lenzuola grandi e anche da sole. Le piegano precise, un lato sull'altro, e le   sistemano nelle cassettiere, nei comò, negli armadi, anche nei ripiani alti: prendono le sedie, ci salgono su e le mettono impilate. Poi chiudono bene le ante.

 Ci sono le ragazze che quando si tolgono le scarpe, le lasciano riposte in modo simmetrico, la destra a destra e la sinistra a sinistra. E sia una che l'altra fuori casa, così non si rovina il pavimento. Non si sporca.

Ci sono le ragazze che quando rifanno la cucina, non rompono mai nulla e non lasciano neanche un alone sui piatti, brillano pure i  bicchieri, luminosi, come un venerdì mattina d'estate alla piazza di fronte alla moschea. Con il muezzin che canta. E tanto sole. Tutto pulito.

Ci sono le ragazze che quando si mettono il velo, raccolgono insieme i capelli, uno per uno, nessuno escluso, e li legano nei lacci stretti,

 nei lacci tesi, 

nei lacci estesi 

 alla testa intera. E poi usano le forcine, per prendere le ciocche e nasconderle bene,

 come i bisogni. Sotto la stoffa. La stoffa buona, dei giorni di festa. Dei desideri incastrati sul cuoio capelluto del cuore. Della voce del vero da occultare con cura.

 Ci sono le ragazze ordinate, rispettose, previdenti

e poi, invece,

 c'è Masha Amini, che ha sempre fatto un po' di difficoltà con le ricostruzioni del caos. 

 È una di quelle persone che sul quaderno scrive una lettera più grande e una più piccola, lo spazio  ineguale tra le parole, le cancellature,

non per un motivo in particolare, è  che le viene naturale. La sua maestra diceva: "è indole".

 Lascia il tubetto del dentifricio aperto, o le calze sotto al letto se ha sonno. La bottiglia del latte senza tappo. Le matite spuntate. 

 È bella così, un po' confusionaria. Non è che sia una ragazza maleducata. Anzi. 

 È che ha i pensieri disorganici, che le frullano sotto a tutti quei capelli come pale del ventilatore, come le trottole sulle punte dei piedi. Per non disturbare.

 Ha quella cosa che si chiama "personalità creativa": propria di chi forma associazioni di significato tra elementi apparentemente distanti.

 E per questo sembra trascurata. Insolente. Indolente.

 Che poi non è che è una che ami la trascuratezza

o le polemiche.

 Il fatto, vedete, è che è nata così:

con tutti quei capelli.

 "È una cosa di famiglia. Quello pure la mamma, la mamma della mamma, la zia, perfino il papà." Sono capelloni gli Amini.

È il 16 settembre dell'anno che corre quando il disordine di Masha, ventidue anni, di origine curda e fusto iraniano, le costa la vita.

 Sta camminando su libera strada a Teheran, dov'è in visita di parenti insieme ai genitori.

"La portiamo via solo per un controllo".

 "Arresto cardiaco" scrive nel verbale la polizia morale e ogni complice del male di opprimere.

 E il cuore effettivamente si è fermato. Non è più ripartito. Ma per un massacro.

 Massacrata di colpi su di lei e su di un genere scomodo.

 Da quel giorno, le proteste nel Paese di Masha Amini e altrove sono iniziate e non si sono più fermate.

Per la prima volta nella storia del mondo islamico, sono proteste gestite per lo più da donne per le donne 

e per gli uomini che non vogliono arrendersi a un regime che si regge sull'odio.

Centinaia di persone sono già morte tra la folla che si riversa sulla strada.

Che è disordinata, che è disordinata, 

che è disordinata.

Ed è bellissima.

Giannis - The greek freak nell'NBA

 “Voglio dire, se diamo a uno scimpanzé una banana e una bandiera lo rendiamo forse un cittadino greco?" 

 Da un'intervista del 2012 al leader del movimento nazionalpopolare 'Alba Dorata', ex parlamentare della Camera dei deputati di Atene.

 Lo "scimpanzé" in questione è Giannis Antetokounmpo, cestista di origini nigeriane, selezionato quindicesima scelta assoluta al Draft NBA nel 2013. Attualmente miglior marcatore della storia dei Milwaukee Bucks.

 Considerato uno dei giocatori di basket più dominanti della lega statunitense e una delle più straordinarie "ali grandi" di sempre. Uno di quei  fenomeni che nascono una volta ogni trent'anni. 

Giannis è il secondogenito di quattro figli. 

 Nel 2009 ha solo 15 anni quando durante la crisi finanziaria, si ritrova con i genitori e i fratelli in mezzo a una strada di Sepoya, periferia a nord di Atene. Molto a nord. 

 Se ne vanno in giro per le vie della Capitale con un frigo che scorre su uno skateboard e due valigie in sei. 

È tutto quello che gli resta.

 Non è esattamente ciò che aveva in testa Chris, il papà di Giannis, quando diciotto anni prima decide di affrontare la traversata per l'Europa insieme alla giovane moglie Veronica. 

 Chris nel lontano 1991 è un promettente calciatore e tenta il tutto per tutto in Germania dove, infatti, è subito reclutato dalla Serie B, poco prima di restare vittima di un irreversibile infortunio al ginocchio.

 È così che i coniugi Antetokoumnpo si spostano in  Grecia, ad Atene, senza documenti, senza lavoro, senza un piano e senza un tetto. Cominciano a inventarsi le giornate: una alla volta e poi tutte insieme, 

le monetine, per un'idea di cena, di stanza, di vita. 

 No, dico, avete presente i "vucumprá" che vogliono venderci i fazzoletti?

Ecco, loro.

 Per i figli scelgono quattro nomi su quattro di origine greca: un gesto di buon augurio per il futuro in un Paese bellissimo che li assorbe ma non li assimila. Accidenti. Quegli africani le tornano su come un pasto pesante, come un esubero di calorie a sua Maestà la dea che ha mangiato già troppo.

 E infatti, per venti lunghi anni, Chris, Veronica, Tanasis, Giannis, Kostas e Alex 

molto semplicemente 

per lo Stato greco 

non esistono.

 Fanno parte del mondo sommerso che brulica dentro il ventre convulso dell'Unione Europea mentre l'Unione Europea è più impegnata a riemergere che a digerire.

E non è che non ci si voglia integrare. Diteglielo un po'!

 La famiglia Antetokoumnpo si cambia addirittura il cognome nello strenuo tentativo di farsi riconoscere: grecizzano il natio Adetokunbo, che in nigeriano significa "il figlio del re che torna alle sue origini".

Giannis lo sa bene a quali origini tornare…perché lui è originario di quel versante dell'Olimpo dove risiedono gli atleti fenomenali che sanno per cosa, come, quando e quanto lottare. 

Vabè, magari, agli esordi esordi, non lo sanno tanto bene, ammettiamolo... però Cristo, se lottano lo stesso.

E Giannis lotta perché vuole una storia diversa, la vuole riscrivere con dei punti su un tabellone, con su una maglia, con su degli sponsor, con su dei tifosi. 

E Giannis lotta, come suo padre Chris, che non ha di che sfamare i suoi figli, ma sa resistere e sa come educarli. 

A vincere e a perdere, anche tutto, però mai la dignità.

E Giannis lotta con quello che ha: un pallone rimediato in giro e un solo paio di scarpe per due, per lui e per il fratello Tanasis. 

Che poi a dire il vero, i due ragazzi preferiscono il calcio alla palla a spicchi. Vogliono fare quello che non è riuscito a fare il padre anni prima.

Ma alla fine è giocando tra i canestri del campetto del quartiere che Giannis viene notato da Velimiatis, un noto coach del miglior basket ellenico. 

"Ricordo di aver avuto una sorta di illuminazione, c'era qualcosa in quel ragazzino che, vi giuro, non avevo mai visto prima. È stato un istante, e ho capito: ho capito dove sarebbe arrivato Giannis Antetokounmpo".

Questo racconta il coach che quel pomeriggio si era andato a fare un giro ai margini della polis: del resto si sa che le forze di volontà giovani e centripete hanno più fame di tutti. In tutti i sensi.

Giannis è apolide, né nigeriano né greco, ha il sangue immigrato, spiegano all'allenatore i genitori del ragazzo: è del gruppo sanguigno clandestino, zero tolleranza, irregolare dalla nascita. 

Ma non importa, sostiene Velimiatis che, se proprio vogliamo parlare di sangue, è a favore delle "trasfusioni"... Infatti, offre dei soldi alla famiglia del ragazzo e lo inserisce nella sua squadra. No matter what.

Che Giannis sia bravo da subito in campo? Non è vero. Il gioco di Giannis fa acqua da tutte le parti tranne che dalla parte della determinazione.

È denutrito, maldestro, scoordinato, inciampa, cade sulle sue mani grandi, tra le sue circonferenze piccole, ha una meccanica di tiro ancora troppo meccanica.

Il suo corpo è un ammasso di pasta informe, di calcestruzzo da stendere, di marmo rigido da scolpire per modellare quella materia atomica di muscoli e ossa,

quei pezzi di uomo ancora incerti nei movimenti, nei palleggi, nei passaggi, nei rimbalzi. Combina un disastro dopo l'altro, incasella sbagli su sbagli, colleziona imperdonabili micro fallimenti continui

eppure, non vuole mollare, 

“Giannis è uno di quelli che non mollerà mai un cazzo signore e signori”, così lo difende il coach. "Lasciatelo crescere, vi dico, lasciatelo crescere!". E Giannis cresce: 211 centimetri di altezza per 223 centimetri di apertura alare. E vola in serie A2. E vola sempre meglio.

E comincia a fare i numeri, nonostante

spesso e non volentieri si ritrovi a dormire in palestra: non ha neanche i soldi per il bus che lo riporta a casa la sera. 

Ora, fermi tutti: immaginate cosa può voler dire per uno che non ha un euro per un biglietto ricevere un'offerta da 325 mila euro da una squadra. Nel caso specifico il Saragozza, più che rispettabile team iberico.

Immaginato?

Ecco.

Però coach Velimiatis dice: "aspetta, primo perché non hai i documenti per spostarti in Spagna e secondo perché la settimana prossima arrivano quelli dell'NBA". 

E Giannis aspetta.

L'NBA arriva:

"You were right man! This guy has got what it takes!". Il ragazzo ha tutto quello che serve.

Ad esempio, ai Milwaukee Bucks, storica super squadra statunitense un po' sottotono ma che passerà nel giro di poco tempo nelle mani di un grande imprenditore risoluto nel risollevarne le sorti. 

E sono sorti non facili per Giannis che finalmente ottiene la cittadinanza greca e il visto statunitense, è il 9 maggio del 2013, ma viene da subito criticato dai vertici. Cito testuali parole: “è troppo emotivo, piange, si dispera e fa troppi errori. Che cosa avete acquistato?! È un dilettante, una giraffa!".

Un giorno Giannis va in un negozio di Money transfer e invia tutto l'intero primo stipendio alla famiglia, e quando dico intero, intendo intero... arriva tardi alla convocazione perché è rimasto senza un soldo e deve percorrere a piedi il tragitto. "Ma che cazzo ti salta in mente ragazzo?!"

La famiglia prima di tutto, sir.

E Giannis è solo al mondo, come tutti noi, ma con la sua famiglia e la sua grinta dentro. 

Nel giro di pochi mesi straccia tutti i record possibili, scala la classifica dei canestri, traina il suo team verso il podio della lega, schiaccia tutto ciò che si può schiacciare, vince tutto ciò che si può vincere, è divino in campo, è divina la sua visione di gioco. Vede più lontano di tutti, prima di tutti, meglio di tutti.

Gli americani lo iniziano a chiamare "the greek freak", il greco bizzarro.

O anche "the alphabet human", l’alfabeto umano.

Perché così è più semplice menzionarlo, del resto, il suo cognome è troppo complicato e lo sappiamo quanto sia più smart semplificare.

Beh, questo greco bizzarro, questo alfabeto umano, diventa in breve una leggenda dello sport mondiale alla stregua dei suoi miti d'infanzia, tipo Koby Bryant, tipo Michal Jordan, tipo Giannis Antetokounmpo, che signor Nikolaos, no. Non è uno scimpanzé. 

Dio solo sa se questo è un uomo.

Il papà Chris muore a soli 54 anni, troppo presto, ma in tempo per vedere il figlio decollare negli States.

Ogni volta che segna un canestro, Giannis continua a correre. Guarda in alto, oltre il perimetro ovale dello stadio e continua a correre. Sa che ha segnato per tutti quelli che hanno riscritto la storia, che hanno riscritto il loro destino 

e continua a correre. 

Segna per tutti i neri che sono stati oppressi, vessati, umiliati, sfruttati e continua a correre. Segna per i suoi tre fratelli e per la madre, tutti uniti in una chiave di volta, un giorno alla volta, un canestro alla volta per un’idea di scelta, di vittoria, di vita

e continua a correre.

Segna per il padre, che non ha più battiti se non in quelli forti del figlio.

E continua a correre.

E continua a correre.

EUR

 Sono cresciuta all'ombra delle geometrie dell'EUR, espressione maggiore dell'architettura razionalista e appannaggio del Ventennio. Fascista è una brutta parola 

 ma bisogna scriverla ogni tanto.

 Doveva essere un'esposizione, addirittura universale, non se n'è più fatto nulla, non capita di rado in Italia.

 Eppure, è ancora qui, questo quartiere precisamente incompiuto, a riempirmi gli occhi di spigoli, a raddrizzarmi le giornate, a sorvegliarmi le voglie. 

 Cinque anni di Liceo, il Cannizzaro, storico, solido, cubico, solenne, un invito ad ambire. Ma a cosa?

Dentro, tra le mura, generazioni infelici, a modo nostro, come le famiglie di Tolstoj...non meno sensibili, tuttavia, di altre passate e più perdonate. 

 Figlia di mia madre a sua volta germogliata tra le vetrine, panchine e fioriere dei tempi d'oro, quando la 'provincia' chiamata EUR sapeva di soldi, di nuovo e di mare.

 Non volevo più tornarci: ho scarabocchiato percorsi lontani da queste vie dell'Arte, dell'Europa, di Beethoven e dell'Aeronautica. Andate a cagare tutti, l'Umanesimo e la Scultura e l'armamentario, avevo pensato. E invece, eccomi tornata, dopo anni sparsa altrove, a insegnare...all'Eur per l'Eur e dintorni. In questi bordi, ricamati, imperlati, merlati, ma pur sempre bordi, periferici sbocchi fertili e ideali per osservazioni 'astroletterarie'. I miei planetari.

 Ci rotolo ancora a mestiere su questi marmi, non miei, di altri, ma con eleganza, nonostante. Mi sostengono i portici, che mi solfeggiano gli echi, dagli orizzonti ampi, per contenere i miei sogni, le velleità, i sentimenti, e quei lasciti di Fellini e  Antonioni e del cinema visionario di un'epoca che respira ancora dalla pelle liscia dei capodogli bianchi, quando cala il sipario, alla sera, sulle onde anomale della nostra Roma Sud.

 Nutro un misto di irritazione e di amore, insomma, per l'ordine scomposto di questi spazi, per i loro appuntamenti mancati, per i trascurati contrasti tra le diligenti linee e la colorita popolazione che ci scorre e ricorre.

 Ricorre, allora, il tema ben noto del mio malcelato sgomento di fronte a ciò che sarebbe dovuto essere, ma è altro, a sorpresa...più bello! In quel fitto mistero della fede che è l'eterogenesi dei fini.

 Un caffè da Palombini, l'ennesimo sole al Laghetto, un buon vino. Me di nuovo da Giolitti, a riflettere sul tempo che passa sotto le mie finestre alte. Un settimo piano per vederlo da lontano, quel Palazzo della Civiltà impropriamente chiamato Colosseo Quadrato e che io arrotondo da anni nelle curve lente della mia nostalgia. E vedo anche San Pietro e Paolo, in due... perché un solo patrono per Roma non basta. 

 Siamo romani domani anche all'EUR, incastrati in parcheggi difficili, tra palazzi imponenti, e frasi scolpite d'orgoglio, a sentirci più piccoli, eppure, ancora, ancora, significanti.

Luana D'Orazio - Operaia tessile morta sul lavoro

 Maggio non è un buon mese per morire, lo trovo abbastanza inopportuno, dovrebbe essere vietato dalla legge, si dovrebbe rimandare la faccenda a data da destinarsi. A maggio si nasce, non si muore. 

 Ci sono altri mesi per combinare cose del genere. Ad esempio, novembre, secondo me, è il mese più indicato, ma anche marzo: con gli ultimi strascichi d'inverno, di giardini soli, di rami nudi, di nebbia compressa, di rabbia fitta, di silenzi fermi e buio

 presto. Ma a maggio no. 

 A maggio si nasce, non si muore. 

E invece, Luana D'Orazio, ventidue anni e cento quaranta battiti al minuto, è morta a maggio, il terzo giorno del mese dei fiori, 

col cielo terso a Montemurlo, 

masticata in provincia di Prato da un orditoio che l'ha inghiottita in 9 secondi:18 respiri sempre più lenti.

 Poi niente. Poi niente. Poi niente.

Era il 2021.

 Luana aveva un figlio piccolo tutto per sé, una stanza in affitto per lui, un contratto da apprendista, le rate della macchina ancora da pagare, (accidenti!), sette pentole in acciaio Inox, un bel materasso, uno straordinario sorriso, una sorta di  vita davanti, una divisa blu oceano, dei sogni.

 Un posto in fabbrica a disintegrarli.

A non farla accadere, a gettarla oltre una saracinesca bassa assai, ossia manomessa,

 per produrre efficacemente l'8% di panni in più, di ammassi di fibra, di intrecci incolore, inodore, indolore, di luridi stracci aderenti alla pelle

 da riempire di sudore e poi usare per lavare

 quando non ci entrano più sui fianchi, quando vai a vedere che sotto sotto ci sbattono, quando alla fine li abbiamo rovinati, quando ci sono andati a noia.

 Così poco è costata Luana.

Prima che accadesse questo ennesimo "incidente" sul lavoro, in quei giorni strani di pandemia e altri orrori, io non lo sapevo che cosa fosse un orditoio. 

Perché non so proprio come sia fatto un macchinario tessile. Non saprei da dove cominciare per spiegarlo. Non so nulla di fabbriche. 

Io ho studiato altre cose.

 Magari so bene com'è fatto il reparto donna di Zara, so distinguere una maglia di cotone da una in poliestere, so indovinare la mia taglia senza passare per le luci dei camerini, (chi non le detesta?), so smacchiare le macchie di caffè e anche di vino, (ma non rosso), so come acquistare abiti online. Alle volte so perfino abbinarli. 

Ma non so come si fanno.

Cioè, non lo so com'è fatto un orditoio.

So bene che l'industria tessile è stata il motore del Nord Italia, so che la florida epoca dei Comuni è nata dentro i laboratori di trame, tra gomitoli e potere, reti strette e commerci, so che il mercantilismo e il capitalismo sono iniziati nei filatoi d'Europa, 

so che le donne nella letteratura hanno sempre amato cucire, per definizione, una loro realtà nella quale possibilmente

a maggio si nasce,

 non si muore.

Ma non lo so com'è fatto un orditoio.

E forse non lo sapeva neanche Luana

 che mi è tornata in mente oggi quando un mio studente me l'ha rinominata a lezione. 

Insegno in un professionale e parlavamo di un incidente simile avvenuto in una vetreria ieri notte.

 F. ha detto "che poi se non stai attento finisci schiacciato come un insetto. Prof, lei se la ricorda Luana?".

 I due proprietari e il manutentore, accusati di omicidio colposo e rimozione dolosa di cautele antinfortunistiche, hanno patteggiato pene lievi lievi come

 è la terra per chi se ne va. 

Grosse somme di denaro sono state offerte ai familiari della vittima. E rifiutate con sdegno.

 Sì, ho risposto, certo che me la ricordo Luana.


-


"Chissà che la memoria non consista solo nel guardare le cose fino in fondo". 


Yuko Tsushima

Saman Abbas

 Ce l'aveva quasi fatta Saman Abbas, diciotto anni appena, originaria del Pakistan, in cerca di più luce come un girasole, trapiantata in provincia di Reggio   Emilia dal 2016: un bel po' di cuore in esubero, l'animo ribelle, dello sconvolgente coraggio.

 Le mancavano solo dei documenti e il suo  passaporto, poi avrebbe preso un aereo e sarebbe rimpatriata con il ragazzo che amava, il connazionale Ayub Saqib, per sposarlo, finalmente.

 C'era già il vestito tradizionale pronto per le loro nozze, con tutti quei drappi e i ricami e le falde ampie della gonna, piene di colori del futuro come  lo volevano loro, libero.  

 "Io voglio studiare", "io non voglio indossare il velo", "io voglio essere chi voglio io", "io non voglio sposare quell'uomo". 

 Troppi "voglio" per i gusti della sua famiglia, dalla quale Saman era stata allontanata dalle autorità proprio un anno prima del suo omicidio, dopo che lei stessa ne aveva denunciato i maltrattamenti e l'induzione ad un matrimonio forzato con un cugino di dieci anni più grande.

 Assegnata ad una struttura di Bologna, la giovane aveva iniziato un'altra vita, la sua.

 "Non è importante ciò che gli altri hanno fatto di noi, ma ciò che facciamo con ciò che gli altri hanno fatto di noi", chissà se Saman si era mai imbattuta in questa frase di Sartre; per certo era quello che stava provando a mettere in atto: una piccola rivoluzione per una grande causa, che è quella di un'intera generazione di giovani donne islamiche pronte a tutto pur di scegliere il loro destino, pur di sollevarsi dalla sottomissione alla quale sono costrette, pur di risvegliare le coscienze delle democrazie vere o presunte nelle quali crescono con nuove speranze, pur di rispondere al gretto dispotismo religioso e familiare che le incatena ad un ruolo che non vogliono più recitare.

 Ce l'aveva quasi fatta Saman Abbas, ma quei documenti e quel passaporto non riuscirà mai a recuperarli.

 Lo zio, i due cugini, il padre e la madre, unici indagati per la morte di Saman avvenuta tra il 30 aprile e il 1 maggio del 2021, sono stati rinviati a giudizio, il 10 febbraio del 2023 inizierà il processo. La madre è ancora latitante.

L'arresto di Shabbar Abbas, padre della ragazza, del 15 novembre scorso riaccende i riflettori su un delitto che esige una riflessione ancora su di un cambiamento radicale richiesto dalla comunità islamica, in grembo alla comunità islamica stessa, gridato e ancora una volta violentemente messo a tacere.

martedì 23 marzo 2021

Appesi a un filo

 Dalla cronaca del tg3 speciale 18 marzo, rivisitato:

- Si chiamava Massimo Amati mio padre, portava un cognome che suonava più come un verbo all'imperativo per un uomo che ha amato sempre più gli altri e meno se stesso. 

Era infermiere al San Camillo da quarant'anni, a giugno sarebbe andato in pensione. Gli avrebbero fatto una bella festa.

È stato un buon marito, un buon padre e una buona persona, mio padre, uno di quegli uomini ai quali la gente si ricorda di voler bene, anche dopo anni.

Aveva scelto il suo lavoro da ragazzino, come un gioco da grandi che voleva provare. Sì, perché a lui piaceva fare e fare per gli altri e nei reparti ospedalieri c'era sempre da fare e c'erano sempre gli altri.

Chi lo conosceva ricordava a me e alle mie sorelle quanto fossimo fortunate ad avere un papà così... e non aggiungevano definizioni, perché ci si capiva sul resto.

Ogni tanto raccontava che il suo turno più bello era stato in un'ambulanza una notte dell'agosto '97, quando una donna partorì il figlio mentre gli stringeva forte la mano, durante il viaggio verso l'ospedale. Quando parlava di questa cosa si commuoveva mio padre...dicono che le persone che lavorano con i malati si fanno la pelle dura con il tempo. Beh, mio padre non se l'era fatta la pelle dura. Mio padre aveva le mani ferme, ma il cuore friabile. 

Non ci raccontava quasi mai del suo lavoro, mio padre, però un po' lo intuivamo com'era stare lì in corsia, aveva gli occhi grandi che riempivano tutto e si lasciavano intendere. C'erano delle volte che si assentava da casa più del previsto e al ritorno diceva che era andato a camminare a Ostia, al mare...'per smaltire', diceva. Ma non i pasti, i dolori.

Quando ero bambina, spesso, stendevamo i panni insieme. Lui diceva che non 'aiutava' la mamma, ma faceva la sua parte piuttosto. Perché se aiuti qualcuno, dai per scontato che in realtà spetti all'altro la faccenda, diceva.

Mi faceva reggere il cestino delle mollette, mio padre, e poi ci mettevamo in finestra, vicino allo stendino che pendeva dal davanzale con i gerani bianchi, qui, al quarto piano di Via Daverio. Stendeva il bucato, mio padre, aprendo i vestiti uno ad uno, con cura, tra le dita fine e di tanto in tanto mi guardava e diceva: "Vedi Ninnè, siamo come sti panni...appesi a un filo, basta un soffio".

 Papà, è passata una folata, papà.

Avresti avuto ancora tante storie da raccontare e ancora qualche filo da ricucire e ferita da chiudere e flebo da sistemare e mani da tenere...ma è arrivato il Covid papà e tu hai fatto la tua parte, la più difficile. 

Oggi c'è vento a Roma e la TV è venuta a chiedermi di te, perché è il giorno del ricordo di chi se n'è andato durante questa cosa strana che è la pandemia. C'è la troupe qui davanti, ma io vedo solo i panni stesi che ondeggiano al vento, dietro la telecamera. Lì, sotto al davanzale con i gerani bianchi, c'è ancora il tuo camice ad asciugare al sole di marzo. Allora, adesso saluto i signori e lo vado a mettere dentro, papà.

Masha Amini e le lotte in Iran

 Ci sono le ragazze che sanno piegare le camicie, le  canottiere e anche le lenzuola grandi e anche da sole. Le piegano precise, un lato sul...