martedì 23 marzo 2021

Appesi a un filo

 Dalla cronaca del tg3 speciale 18 marzo, rivisitato:

- Si chiamava Massimo Amati mio padre, portava un cognome che suonava più come un verbo all'imperativo per un uomo che ha amato sempre più gli altri e meno se stesso. 

Era infermiere al San Camillo da quarant'anni, a giugno sarebbe andato in pensione. Gli avrebbero fatto una bella festa.

È stato un buon marito, un buon padre e una buona persona, mio padre, uno di quegli uomini ai quali la gente si ricorda di voler bene, anche dopo anni.

Aveva scelto il suo lavoro da ragazzino, come un gioco da grandi che voleva provare. Sì, perché a lui piaceva fare e fare per gli altri e nei reparti ospedalieri c'era sempre da fare e c'erano sempre gli altri.

Chi lo conosceva ricordava a me e alle mie sorelle quanto fossimo fortunate ad avere un papà così... e non aggiungevano definizioni, perché ci si capiva sul resto.

Ogni tanto raccontava che il suo turno più bello era stato in un'ambulanza una notte dell'agosto '97, quando una donna partorì il figlio mentre gli stringeva forte la mano, durante il viaggio verso l'ospedale. Quando parlava di questa cosa si commuoveva mio padre...dicono che le persone che lavorano con i malati si fanno la pelle dura con il tempo. Beh, mio padre non se l'era fatta la pelle dura. Mio padre aveva le mani ferme, ma il cuore friabile. 

Non ci raccontava quasi mai del suo lavoro, mio padre, però un po' lo intuivamo com'era stare lì in corsia, aveva gli occhi grandi che riempivano tutto e si lasciavano intendere. C'erano delle volte che si assentava da casa più del previsto e al ritorno diceva che era andato a camminare a Ostia, al mare...'per smaltire', diceva. Ma non i pasti, i dolori.

Quando ero bambina, spesso, stendevamo i panni insieme. Lui diceva che non 'aiutava' la mamma, ma faceva la sua parte piuttosto. Perché se aiuti qualcuno, dai per scontato che in realtà spetti all'altro la faccenda, diceva.

Mi faceva reggere il cestino delle mollette, mio padre, e poi ci mettevamo in finestra, vicino allo stendino che pendeva dal davanzale con i gerani bianchi, qui, al quarto piano di Via Daverio. Stendeva il bucato, mio padre, aprendo i vestiti uno ad uno, con cura, tra le dita fine e di tanto in tanto mi guardava e diceva: "Vedi Ninnè, siamo come sti panni...appesi a un filo, basta un soffio".

 Papà, è passata una folata, papà.

Avresti avuto ancora tante storie da raccontare e ancora qualche filo da ricucire e ferita da chiudere e flebo da sistemare e mani da tenere...ma è arrivato il Covid papà e tu hai fatto la tua parte, la più difficile. 

Oggi c'è vento a Roma e la TV è venuta a chiedermi di te, perché è il giorno del ricordo di chi se n'è andato durante questa cosa strana che è la pandemia. C'è la troupe qui davanti, ma io vedo solo i panni stesi che ondeggiano al vento, dietro la telecamera. Lì, sotto al davanzale con i gerani bianchi, c'è ancora il tuo camice ad asciugare al sole di marzo. Allora, adesso saluto i signori e lo vado a mettere dentro, papà.

sabato 13 marzo 2021

Il corpo di Ettore

 Quando ho scelto questo mestiere, che è artigianato ed è oreficeria e che è fatto di routine, piccoli riti quotidiani e tradizioni secolari, di manifattura specializzata nelle menti e nei sentimenti, mi sono immaginata più o meno ogni scenario: mi vedevo nelle scuole di frontiera, ai margini dimenticati di Roma Capitale, nella Sicilia remota in qualche isoletta sperduta, nelle classi caotiche delle case famiglia, nelle aule blindate di Rebibbia, nelle scuole di inglese cambogiane in mezzo ai bambini figli delle risaie, e altre ipotesi estreme, tipiche della mia indole che tendenzialmente, tra l'altro, le porta poi avanti.

Tuttavia, giuro che mai, categoricamente mai, avrei pensato di insegnare un giorno dal salotto di casa, in pigiama dalla vita in giù, con i miei ragazzi ologrammati in icone tipo 'GL', 'FV', 'SL', dentro lo schermo di un computer portatile. 

Ma va bene così, a ognuno il suo in questo periodo. Allora, dai, di nuovo in DAD. Lunedì spiego il canto di Priamo che chiede il corpo del figlio ad Achille. Normalmente farei questa lezione in piedi al centro tra i banchi (sì, lo so, avete pensato all'Attimo fuggente, ma non in piedi sulla cattedra, prometto), con le vocali lunghe che tremano perché di solito non li reggo emotivamente quei versi e racconterei alla mia prima A che, sebbene non dovranno (spero) mai restituire un cadavere sfigurato al familiare di una loro vittima, sì, invece, che gli capiterà di provare pietà per un uomo...  Per certo, dall'alto dei miei 17 anni più di loro, so che capita a tutti prima o poi.

E quando si profilerà quella situazione, quando avranno la possibilità di scegliere se sentire e comprendere o vigliaccheggiare e sottrarsi, io voglio che ci ripensino ad Achille, voglio che ripensino a questo semidio greco coperto di ira, di onori e gloria, che non ha vacillato mai per ventiquattro libri, dieci anni di guerra, che si è vendicato, ha odiato e ha ucciso e ha infierito. Ma che di fronte a un vecchio che piange l'innaturale sepoltura del sangue del suo sangue, si china e rispetta.

 Perché Priamo, il padre di Ettore, lì davanti in ginocchio, stravolto e stanco, a guardarlo bene, potrebbe essere suo padre.

 C'è la guerra di Piero di De André là dentro, c'è il mistero della Fede, c'è la 'pietas' dantesca, ci sono decadi di studi scientifici sull'empatia e i neuroni specchio, c'è la vita che a tutti noi è capitata in dono e che, come un dono, va onorata. 

Allora, quando suonerà la mia campanella immaginaria lunedì, che avrà il rumore del mio frigo da cambiare, e il sapore della nostalgia per gli studenti che già sento, ce la metterò tutta con Epica... anche se a questi ragazzi li vedrò solo illuminarsi nei cerchietti di Teams che si accendono e spengono come i respiri. Ce la metterò tutta perché se lo merita anche la leva Corona virus di studiare e perché la pandemia finirà prima o poi, ma questa loro avventura terrena no, e voglio saperli pronti.

DAD 2.0

 Quando ho scelto questo mestiere, che è artigianato ed è oreficeria e che è fatto di routine, piccoli riti quotidiani e tradizioni secolari, di manifattura specializzata nelle menti e nei sentimenti, mi sono immaginata più o meno ogni scenario: mi vedevo nelle scuole di frontiera, ai margini dimenticati di Roma Capitale, nella Sicilia remota in qualche isoletta sperduta, nelle classi caotiche delle case famiglie, nelle aule blindate di Rebibbia, nelle scuole di inglese cambogiane in mezzo ai bambini figli delle risaie, e altre ipotesi estreme, tipiche della mia indole che tendenzialmente, tra l'altro, le porta poi avanti.

Tuttavia, giuro che mai, categoricamente mai, avrei pensato di insegnare un giorno dal salotto di casa, in pigiama dalla vita in giù, con i miei ragazzi ologrammati in icone tipo 'GL', 'FV', 'SL', dentro lo schermo di un computer portatile. 

Ma va bene così, a ognuno il suo in questo periodo. Allora, dai, di nuovo in DAD. Lunedì spiego il canto di Priamo che chiede il corpo del figlio ad Achille. Normalmente farei questa lezione in piedi al centro tra i banchi (sì, lo so, avete pensato all'Attimo fuggente, ma non in piedi sulla cattedra, prometto), con le vocali lunghe che tremano perché di solito non li reggo emotivamente quei versi e racconterei alla mia prima A che, sebbene non dovranno (spero) mai restituire un cadavere sfigurato al familiare di una loro vittima, sì, invece, che gli capiterà di provare pietà per un uomo...  Per certo, dall'alto dei miei 17 anni più di loro, so che capita a tutti prima o poi.

E quando si profilerà quella situazione, quando avranno la possibilità di scegliere se sentire e comprendere o vigliaccheggiare e sottrarsi, io voglio che ci ripensino ad Achille, voglio che ripensino a questo semidio greco coperto di ira, di onori e gloria, che non ha vacillato mai per ventiquattro libri, dieci anni di guerra, che si è vendicato, ha odiato e ha ucciso e ha infierito. Ma che di fronte a un vecchio che piange l'innaturale sepoltura del sangue del suo sangue, si china e rispetta.

 Perché Priamo, il padre di Ettore, lì davanti, in ginocchio stravolto e stanco, a guardarlo bene, potrebbe essere suo padre.

 C'è la guerra di Piero di De André là dentro, c'è il mistero della Fede, c'è la 'pietas' dantesca, ci sono decadi di studi scientifici sull'empatia e i neuroni specchio, c'è la vita che a tutti noi è capitata in dono e che, come un dono, va onorata. 

Allora, quando suonerà la mia campanella immaginaria lunedì, che avrà il rumore del mio frigo da cambiare, e il sapore della nostalgia per gli studenti che già sento, ce la metterò tutta con Epica... anche se a questi ragazzi li vedrò solo illuminarsi nei cerchietti di Teams che si accendono e spengono come i respiri. Ce la metterò tutta perché se lo merita anche la leva Corona virus di studiare e perché la pandemia finirà prima o poi, ma questa loro avventura terrena no, e voglio saperli pronti.

Masha Amini e le lotte in Iran

 Ci sono le ragazze che sanno piegare le camicie, le  canottiere e anche le lenzuola grandi e anche da sole. Le piegano precise, un lato sul...