Dalla cronaca del tg3 speciale 18 marzo, rivisitato:
- Si chiamava Massimo Amati mio padre, portava un cognome che suonava più come un verbo all'imperativo per un uomo che ha amato sempre più gli altri e meno se stesso.
Era infermiere al San Camillo da quarant'anni, a giugno sarebbe andato in pensione. Gli avrebbero fatto una bella festa.
È stato un buon marito, un buon padre e una buona persona, mio padre, uno di quegli uomini ai quali la gente si ricorda di voler bene, anche dopo anni.
Aveva scelto il suo lavoro da ragazzino, come un gioco da grandi che voleva provare. Sì, perché a lui piaceva fare e fare per gli altri e nei reparti ospedalieri c'era sempre da fare e c'erano sempre gli altri.
Chi lo conosceva ricordava a me e alle mie sorelle quanto fossimo fortunate ad avere un papà così... e non aggiungevano definizioni, perché ci si capiva sul resto.
Ogni tanto raccontava che il suo turno più bello era stato in un'ambulanza una notte dell'agosto '97, quando una donna partorì il figlio mentre gli stringeva forte la mano, durante il viaggio verso l'ospedale. Quando parlava di questa cosa si commuoveva mio padre...dicono che le persone che lavorano con i malati si fanno la pelle dura con il tempo. Beh, mio padre non se l'era fatta la pelle dura. Mio padre aveva le mani ferme, ma il cuore friabile.
Non ci raccontava quasi mai del suo lavoro, mio padre, però un po' lo intuivamo com'era stare lì in corsia, aveva gli occhi grandi che riempivano tutto e si lasciavano intendere. C'erano delle volte che si assentava da casa più del previsto e al ritorno diceva che era andato a camminare a Ostia, al mare...'per smaltire', diceva. Ma non i pasti, i dolori.
Quando ero bambina, spesso, stendevamo i panni insieme. Lui diceva che non 'aiutava' la mamma, ma faceva la sua parte piuttosto. Perché se aiuti qualcuno, dai per scontato che in realtà spetti all'altro la faccenda, diceva.
Mi faceva reggere il cestino delle mollette, mio padre, e poi ci mettevamo in finestra, vicino allo stendino che pendeva dal davanzale con i gerani bianchi, qui, al quarto piano di Via Daverio. Stendeva il bucato, mio padre, aprendo i vestiti uno ad uno, con cura, tra le dita fine e di tanto in tanto mi guardava e diceva: "Vedi Ninnè, siamo come sti panni...appesi a un filo, basta un soffio".
Papà, è passata una folata, papà.
Avresti avuto ancora tante storie da raccontare e ancora qualche filo da ricucire e ferita da chiudere e flebo da sistemare e mani da tenere...ma è arrivato il Covid papà e tu hai fatto la tua parte, la più difficile.
Oggi c'è vento a Roma e la TV è venuta a chiedermi di te, perché è il giorno del ricordo di chi se n'è andato durante questa cosa strana che è la pandemia. C'è la troupe qui davanti, ma io vedo solo i panni stesi che ondeggiano al vento, dietro la telecamera. Lì, sotto al davanzale con i gerani bianchi, c'è ancora il tuo camice ad asciugare al sole di marzo. Allora, adesso saluto i signori e lo vado a mettere dentro, papà.