Oggi E., una studentessa di prima, mi ha consegnato un'intervista molto particolare. Durante la giornata della memoria, avevo aperto il dibattito in classe credendo di avere davanti un gruppo di studenti troppo giovani per sentire le frequenze del dolore storico. Mi sbagliavo. Non solo perché alcuni di loro hanno nonni anziani che hanno vissuto la Seconda guerra mondiale e gliel'hanno raccontata, ma anche e soprattutto perché sembra proprio che il DNA conservi e trasmetta informazioni su ricordi di esperienze remote, che convivono, per lo più inconsciamente, dentro di noi, nel nostro patrimonio genetico, insieme al colore dei capelli, alla forma del naso e a tutto il resto.
Nel travaglio della crescita, sulla superficie grezza di sensibilità giovanissime, l'eredità emotiva di vizi e virtù, di traumi ed entusiasmi, di ideali e tradimenti, di lealtà, onori, vigliaccherie, audacia e molto altro, ricompare come una casa affollata di spettri, negli occhi dei ragazzi. È un vissuto onirico sommerso, un flusso di coscienza simile a una nemesi, un testamento morale pluri autografato.
Nel nostro sangue, insomma, scorrono, sottili, le combinazioni genetiche di antenati profondamente esistiti che respirano, come banchi di pesci, tra le branchie dei libri di testo.
I nostri scheletri convivono con le scosse sismiche che hanno percosso il mondo europeo e che, latenti, ancora oggi lo sollecitano.
I nostri sensi di colpa verso i Paesi in 'via di sviluppo', le nostre 'tolleranze', i nostri aiuti umanitari, i nostri piani di inclusione e di integrazione, le nostre idiosincrasie antichissime, le nostre diffidenze, le nostre lingue e culture continentali connesse ma distanti, i nostri sogni di rimozione puntualmente infranti, le nostre 'smentite' spoglie, ci parlano del debito che abbiamo con la Storia del mondo. Ed è un debito più importante ancora di quello pubblico...
Il nonno di E. è passato per alcune delle più strazianti vicissitudini della Seconda guerra mondiale. È sopravvissuto e, anche grazie a questo, E. è venuta al mondo ed è seduta al terzo banco della mia prima media. Sorride spesso, o almeno credo, la vedo per lo più con la mascherina. È una ragazza solare e leggera, non l'avevo mai vista parlare come ha parlato oggi.
Con le mani che le tremavano per la consapevolezza di quanto prezioso fosse ciò che era riuscita a fare, mi ha raccontato di come avesse convinto il nonno a recuperare quelle vicende dalla memoria, che neanche al figlio (il papà di E.) aveva mai raccontato.
- Curioso come il rapporto con i nipoti sia spesso più diretto e incondizionato rispetto a quello con i figli, ci sono meno nodi irrisolti probabilmente, meno frizioni. -
Questo che è successo oggi si chiama fare Storia e me lo hanno insegnato i miei maestri... Ogni tanto penso a quella imprudente perplessità che sorge nel domandarsi perché si studi ancora la Storia e così tanta Storia nelle scuole italiane. Avverto questo giudizio miope sovente... durante i colloqui con i genitori o nelle conversazioni che mi è capitato di avere con persone tristemente estranee alla materia.
Che dire... Sono fiera di essere italiana e sono tornata a vivere qui anche per questo, perché il sistema d'istruzione italiano riserva ancora un ruolo rilevante alla conoscenza del passato, in una società che è proiettata nel futuro anteriore, nella famelica progettualità, nel consumo preventivo.
La Storia siamo davvero noi, i nostri amori, i nostri desideri, la somma dei nostri giorni. La Storia è nel territorio in cui viviamo, nella retorica dalla quale difenderci, nelle domande ancora da porci.
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