L'incertezza qua era già di casa prima del virus, a dirla tutta. Soprattutto per la mia generazione: appartengo a quella nidiata economicamente fragile che si è dovuta, chi più chi meno, appoggiare alla forza economica delle generazioni precedenti, con tutte le conseguenze e le implicazioni psicologiche del caso.
Lo sappiamo bene, ne è stato scritto in abbondanza: siamo una forza lavoro mediamente ben formata, pluri masterizzata e poliglotta, precaria e confusa, che si definisce e ridefinisce nei suoi sfumati orizzonti, appesantita dai gangli della burocrazia, dalle spade di Damocle di tassazioni inique, stretta nella morsa della globalizzazione da un lato e dell'iper provincialismo dall'altro.
Siamo in disavanzo... nella congiuntura geo-storica del nuovo millennio siamo rimasti a cavallo, tra la digitalizzazione e la preistoria, tra la post-industrializzazione e la riconversione ecologica, tra le crisi degli anni '90, quella del 2008 e questa, tra lo scoppio della piramide demografica ancora da smaltire e la lunga fase di contrazione e ristrutturazione economica europea. Tra l'altro, abbiamo più conoscenze che competenze
per essere assorbiti e integrati come si deve nel mercato del 'saper fare'. Abbiamo creduto al mito cosmogonico della laurea e al superatissimo concetto del posto fisso: lasciti gravosi di samsara (o vite) precedenti, quella narrazione sociale...
E poi, diciamolo, non abbiamo avuto strabilianti idee risolutive del problema.
Andiamo avanti, certo, un aiuto di qua, uno di là, ci siamo abituati, ci si abitua a tutto.
Per noi l'incertezza era questo anche prima. È una fetta di torta che sembra sempre non spettarci del tutto, una coperta troppo corta, un'instabilità che ha il sapore transitorio del Co Co Co, del "le faremo sapere", del "meglio di niente".
Diciamo, piuttosto, che la pandemia sta finendo di scoperchiare questo vaso di pandora, amplia i confini dell'impotenza percepita, ne mette in risalto le bizzarrie e, alle volte, le feroci contraddizioni, ne sospende i giudizi e costringe a cercare ricette. Il nostro 'vaccino' occupazionale.
Per quanto mi riguarda, posso dirmi, tra molte virgolette, fortunata perché, dopo un pellegrinaggio di dieci anni nel turismo, (quando era florido), sono approdata nell'universo scuola, la mia più forte passione da sempre. Quando il 'drive' è una passione concreta, la direzione non può che essere giusta. Tra inquietudine e curiosità, il lavoro come lo volevo io, incrociando le dita, non mi è mai mancato, ma so di essere, a modo mio, un'eccezione.
Nei silenzi di questo anno, ho riflettuto molto, da storica, sull'impatto sociale che la pandemia ha e avrà sui giovani che ho davanti ogni giorno e sui quasi non più giovani della mia età. Le due fasce che conosco meglio.
È presto per fare bilanci, ma di certo questa esperienza ha ridisegnato i profili delle nostre priorità, dei nostri mondi interiori, ci ha regalato una condivisione allargata del beneficio del dubbio, un certo affidamento allo Stato, in assenza di valida alternativa, lo osserviamo con insolito interesse.
La sofferenza fisica della malattia che imperversa intorno, ha rimescolate le carte delle nostre sensibilità e responsabilità, creando una certa attesa per il 'nuovo' mondo, quello post covid, non di certo la terra promessa, ma aspettiamo di vederlo, pazienza...
Avanziamo su terreni ancora più sconnessi, ma con un fatalismo diverso, che conta sugli affetti, seppure materialmente lontani, e sulle nostre gambe, appoggiate a superfici che hanno la consistenza della sabbia fina nella quale interriamo visioni e progetti, per i prossimi tempi, quando li andremo, finalmente, a riprendere.
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