L'italianita è un concetto aggregativo, un congiunto di unità scomposte, una sintesi maldestra di elementi chimicamente non riassumibili, un'alterazione psicotrope dell'eterogenesi dei fini. Per l'irreversibilità dei decorsi storici ci troviamo a condividere dei confini dati e una sorta di mutevole e, tuttavia, individuabile identità comune. Italiani, siamo italiani.
Si rischia sempre di cadere o scadere nella retorica quando si parla di noi, per noi. Questo sentimento patriottico sembra un posticcio tentativo di provocare un surrogato di indotta nostalgia romantica. Eppure, per fortuna o purtroppo lo siamo. E allora dobbiamo pur parlarne, dirlo. Magari, all'occasione e, se forniti di buone argomentazioni, contestarlo.
Si trova più senso di appartenenza negli emigrati che nei residenti. La forza delle scelte prese fa riemergere antiche rese dei conti. Si è costretti al confronto nel contrasto con le altre culture, nell'incontro con le altre influenze.
Chi è fuori percepisce le origini e le ridiscute, le rivaluta, ne riconosce i pregi e ne evidenzia i difetti, spesso con profonda malinconia, se non amarezza, pur sempre con un buon grado di disillusa lucidità.
Per questo, la consapevolezza del significato di 'italiani' è di frequente direttamente proporzionale alla distanza dalle nostre terre. Tanto più lontani, quanto più visceralmente suggestionati dal misterioso mix nostrano di passioni e arti, mestieri e idee, eros e morte, terremoti e speculazioni, corruzioni e nobiltà, miserie e grandi, sconcertanti, struggenti bellezze.
E poi, anche nei momenti difficili ci si sente insieme italiani...italianizzati nei drammi, perché con questi siamo in confidenza, sono nella nostra frequenza, nella nostra ciclica e beneplacida accettazione delle dominazioni straniere, nei nostri strazianti atti eroici, nelle nostre accorate battaglie, ma anche nelle nostre omertà, nelle nostre stragi, nelle nostre faide, nelle nostre guerre. Che poi, diciamolo, non siamo mai stati tanto capaci con le guerre. O almeno quelle sui fronti.
Luci e ombre di un amore riportato come una risacca, dalla placenta mediterranea delle civiltà fondatrici, arrampicato sulle cime ad alta quota del freddo inverno alpino che ci accompagna da generazioni, radicato nei vitigni delle colline dolci da sciogliere, dei nostri lungometraggi da girare.
Viviamo in un giardino con troppe rose non addomesticate e le tre fiere dantesche moltiplicate per mille. Andatelo a dire ai nostri politici che l'Italia è un'altra, non è lei, è un'altra.
Nella mia 'militanza' da insegnante, osservo giornalmente le infinite combinazioni di DNA possibili, distribuite nelle piccole persone che ho sedute tra i banchi di scuola e mi chiedo con tenerezza che Italia costruiremo, che Italia distruggeranno. Ho fede.
Siamo indubbiamente parte del continente che tramonta: la vecchia Europa, stanca, anziana ma perseverante e ostinata, con i fondi pensione gelosamente custoditi nei forzieri delle banche più prestigiose del pianeta, ma svuotate di progettualità e prospettive. L'Europa che è miope, malata e piena di dimenticanza, e che ciò nonostante, caparbia e calcificata, non vuole morire.
I cieli sono grigi, eppure sotto gli alberi genealogici assiepati nei meandri delle nostre costellazioni familiari, ci sono ancora atomi impacchettati per i posteri, pieni di straordinari geni, oltre che di nevrosi e pesanti eredità emotive. Sequoie secolari di saggezza e sapienza, dolori e gloria. Che ne sarà di noi... lo vedremo, lo vedranno.
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