venerdì 19 febbraio 2021

Shooting stars

 Sono cresciuta con l'idea che il cielo servisse soprattutto a far volare gli aerei. Nella mia infanzia ci sono ricordi di valigie posate tra i corridoi, nei bagagliai, rotolate sui nastri scorrevoli agli arrivi, riposte come promemoria in cima agli armadi. Le vedo disseminate nei miei lassi di tempo retroattivo a intervalli frequenti e ravvicinati. Per me sono oggetti mistici e spiritualmente familiari, micro mondi dissonanti di verità alternative, di secondarie possibilità. Numeri civici di indirizzi segreti e compresenti a diverse latitudini, canoni di affitti da pagare con anticipo sui passati fusi orari. Ubicazioni incerte, episodi avvolti dal mistero. 

Ho ascoltato le storie di Conrad, Melville, Verne e Jack London più di qualsiasi favola. Chiedevo a mio padre di raccontarmi dei suoi viaggi e immaginavo quei posti lontani e straordinari poco prima di dormire, per sognarli meglio. 

Per me c'era sempre qualcosa di sensazionale dall'altra parte delle nuvole. Qualcosa per cui valesse la pena diventare adulti. 

Il primo volo fu un aereo 'Virgin' per Parigi, anno 1996, sono trascorsi 24 anni. Non molti nella mia percezione di ciò che ha una certa importanza. 

All'orizzonte ci sono sempre state ali metalliche per me, appese al soffitto del mondo, che portavano altrove. Ho scelto una casa su un piano alto e vicina all'aeroporto per questo. Per prendere quota insieme alle luci intermittenti dei boing decollati in cerca di stelle e sentire dentro al petto quel momento in cui le ruote del carrello si staccano dalla pista e tutto è saggiamente sospeso, ogni giudizio, ogni giustificazione.  

Tutto è sempre stato proiettato verso altre coordinate nel mio immaginario, in quelle digressioni spazio temporali dove fatti e personaggi strabilianti prendono vita, tra parentesi aperte ad altre realtà. Tutto quello che è nel movimento ho sempre amato: ciò che è possibile nel transitorio, nell'inframezzo, nell'atteso. 

Sono una figlia della globalizzazione, ne ho ereditato vizi e virtù, folli contraddizioni e ostinata coerenza. In questi mesi mi sono chiesta se mi mancasse di più la normalità nelle mie radici o 'l'anormalità' delle mie diramazioni. Entrambe, credo, entrambe molto.

giovedì 18 febbraio 2021

Rome by night

 Ti immagino a riposo sui marmi di Trevi, a sciogliere sillabe dentro acque non tue. Di questi tempi sai del male che circola e del fiume che ritorna. Sai del fatto che dal mare si viene e al mare si va. Roma, ti percorro cauta, ti copro i fuochi, li guardo osservante, li tengo per dopo, che serviranno. Bruciamo e non corriamo, almeno non ora. Una punta alla volta, leviamo il respiro, battiamo i chiodi per cornici e ricordi. 

Hai notato? La notte lì fuori è tanto più bella sebbene proibita, quanto più inabitata. La si sogna bambina, la si vede scappare.

E pensare che l'unico modo per sopportare il tuo caos è sempre stato abbracciarti, sentirti la pelle, indovinarti il respiro, misurarti le pause, la metrica e i ritmi, le forze in conflitto, berti in un sorso, viverti i viali, stringerti prima di un'altra partenza. Ma sorella, il mondo soffoca, e per darle aria dobbiamo togliercela, sottrarci i sorrisi, intuirne i sapori. 

Ogni tanto tu mi chiedi di pregare, così io ti fisso perplessa e ti lascio iniziare. 

Dai... Ti ricordi le mani nelle tue piazze? Non dico tanto i visi, ma quelle storie da tessere, quelle dita da articolare, quelle carezze da scorrere. Son certa ti manchino, non lo negare. Soprattutto a tarda notte quando la musica non c'è e te la devi cantare. 

Per un po' ti lasceremo credere che tu ci sia riuscita a rinchiuderci qui, tra mura e gelosie. Ma a noi romani il cinismo ci tempra da secoli e il sole ci vizia quando più gli aggrada. Della nostra resilienza ruvida e amara abbiamo fatto un baluardo, una scelta di vita, un irriverente volgare. Allora, ascoltami, quando vai a dormire, Roma, ricordatelo sempre che davvero, davvero tu non ci puoi mai scordare.

Italy

 L'italianita è un concetto aggregativo, un congiunto di unità scomposte, una sintesi maldestra di elementi chimicamente non riassumibili, un'alterazione psicotrope dell'eterogenesi dei fini. Per l'irreversibilità dei decorsi storici ci troviamo a condividere dei confini dati e una sorta di mutevole e, tuttavia, individuabile identità comune. Italiani, siamo italiani.

Si rischia sempre di cadere o scadere nella retorica quando si parla di noi, per noi. Questo sentimento patriottico sembra un posticcio tentativo di provocare un surrogato di indotta nostalgia romantica. Eppure, per fortuna o purtroppo lo siamo. E allora dobbiamo pur parlarne, dirlo. Magari, all'occasione e, se forniti di buone argomentazioni, contestarlo. 

Si trova più senso di appartenenza negli emigrati che nei residenti. La forza delle scelte prese fa riemergere antiche rese dei conti. Si è costretti al confronto nel contrasto con le altre culture, nell'incontro con le altre influenze. 

Chi è fuori percepisce le origini e le ridiscute, le rivaluta, ne riconosce i pregi e ne evidenzia i difetti, spesso con profonda malinconia, se non amarezza, pur sempre con un buon grado di disillusa lucidità. 

Per questo, la consapevolezza del significato di 'italiani' è di frequente direttamente proporzionale alla distanza dalle nostre terre. Tanto più lontani, quanto più visceralmente suggestionati dal misterioso mix nostrano di passioni e arti, mestieri e idee, eros e morte, terremoti e speculazioni, corruzioni e nobiltà, miserie e grandi, sconcertanti, struggenti bellezze.

E poi, anche nei momenti difficili ci si sente insieme italiani...italianizzati nei drammi, perché con questi siamo in confidenza, sono nella nostra frequenza, nella nostra ciclica e beneplacida accettazione delle dominazioni straniere, nei nostri strazianti atti eroici, nelle nostre accorate battaglie, ma anche nelle nostre omertà, nelle nostre stragi, nelle nostre faide, nelle nostre guerre. Che poi, diciamolo, non siamo mai stati tanto capaci con le guerre. O almeno quelle sui fronti.

Luci e ombre di un amore riportato come una risacca, dalla placenta mediterranea delle civiltà fondatrici, arrampicato sulle cime ad alta quota del freddo inverno alpino che ci accompagna da generazioni, radicato nei vitigni delle colline dolci da sciogliere, dei nostri lungometraggi da girare. 

Viviamo in un giardino con troppe rose non addomesticate e le tre fiere dantesche moltiplicate per mille. Andatelo a dire ai nostri politici che l'Italia è un'altra, non è lei, è un'altra. 

Nella mia 'militanza' da insegnante, osservo giornalmente le infinite combinazioni di DNA possibili, distribuite nelle piccole persone che ho sedute tra i banchi di scuola e mi chiedo con tenerezza che Italia costruiremo, che Italia distruggeranno. Ho fede.

 Siamo indubbiamente parte del continente che tramonta: la vecchia Europa, stanca, anziana ma perseverante e ostinata, con i fondi pensione gelosamente custoditi nei forzieri delle banche più prestigiose del pianeta, ma svuotate di progettualità e prospettive. L'Europa che è miope, malata e piena di dimenticanza, e che ciò nonostante, caparbia e calcificata, non vuole morire.

I cieli sono grigi, eppure sotto gli alberi genealogici assiepati nei meandri delle nostre costellazioni familiari, ci sono ancora atomi impacchettati per i posteri, pieni di straordinari geni, oltre che di nevrosi e pesanti eredità emotive. Sequoie secolari di saggezza e sapienza, dolori e gloria. Che ne sarà di noi... lo vedremo, lo vedranno.

Materia bianca

 Gli astrofisici stanno studiando da diverso tempo la materia bianca dell'universo. Sembra sia una cosa seria. È un tema, un grande tema. 

Per me, invece, la materia bianca ha già una forma. Per me ha il profilo degli angeli che ci custodiscono, con le piume argentee accartocciate in preghiera, un po' affannati, dentro i bagagliai delle auto in coda, a sgranchirsi le ali tra le corsie degli ospedali, funamboli in bilico sopra i fili del tram, acrobati nelle scorribande di notti insonni, a toglierci le frecce delle cacce ai colpevoli, a levarci l'indice di libri contro, a ricordarci chi siamo, chi sono gli altri, che sono noi, in qualche parte un po' atomica di loro. 

La materia bianca eccola. È la loro dedica per noi, avanza tra le intercapedini degli affetti che ci abitano, giù per le faglie degli amori finiti, dei viaggi conclusi, delle acque a venire. Vibra di bellezza autoctona, si autoalimenta nei frammenti adamantini di storie raccolte per farne mattoni e calcestruzzo e innocenza da cullare. Staziona negli avamposti di senso, in quegli angoli di noi dove, tra le fonti cristalline, si inspessisce lo scorrere dei giorni e si fa più forte ogni sentire, compreso il dolore. Ben venga. 

Auguri anche a loro, che ci vogliono il bene, che spostano il peso per non farci cadere, aggrappati alle boe dei nostri cieli dentro, più o meno sommersi. Sono trasmigatori di passaggi nelle vite degli altri, amanti e volenti, addormentati sui pianoforti, abbracciati alle arpe, adunati in sala prove, a disporsi in semicerchio per il prossimo coro dai tetti di Roma o da ovunque voi siate. Pregateli di non dimenticarci, tanto non ci dimenticheranno comunque. Ma è il viceversa...

Auguri alle linee dolci dei loro sorrisi, spiriti guida di questa galassia. I corredi genetici vanno curati, baroni rampanti su alberi genealogici da risalire più che da potare. Pregateli di guardarvi crescere nelle vostre rese quotidiane. Questo è un gioco al contrario, chi perde vince.

Terra promessa

 L'incertezza qua era già di casa prima del virus, a dirla tutta. Soprattutto per la mia generazione: appartengo a quella nidiata economicamente fragile che si è dovuta, chi più chi meno, appoggiare alla forza economica delle generazioni precedenti, con tutte le conseguenze e le implicazioni psicologiche del caso.

Lo sappiamo bene, ne è stato scritto in abbondanza: siamo una forza lavoro mediamente ben formata, pluri masterizzata e poliglotta, precaria e confusa, che si definisce e ridefinisce nei suoi sfumati orizzonti, appesantita dai gangli della burocrazia, dalle spade di Damocle di tassazioni inique, stretta nella morsa della globalizzazione da un lato e dell'iper provincialismo dall'altro.

Siamo in disavanzo... nella congiuntura geo-storica del nuovo millennio siamo rimasti a cavallo, tra la digitalizzazione e la preistoria, tra la post-industrializzazione e la riconversione ecologica, tra le crisi degli anni '90, quella del 2008 e questa, tra lo scoppio della piramide demografica ancora da smaltire e la lunga fase di contrazione e ristrutturazione economica europea.  Tra l'altro, abbiamo più conoscenze che competenze 

per essere assorbiti e integrati come si deve nel mercato del 'saper fare'. Abbiamo creduto al mito cosmogonico della laurea e al superatissimo concetto del posto fisso: lasciti gravosi di samsara (o vite) precedenti, quella narrazione sociale... 

E poi, diciamolo, non abbiamo avuto strabilianti idee risolutive del problema. 

Andiamo avanti, certo, un aiuto di qua, uno di là, ci siamo abituati, ci si abitua a tutto. 

Per noi l'incertezza era questo anche prima. È una fetta di torta che sembra sempre non spettarci del tutto, una coperta troppo corta, un'instabilità che ha il sapore transitorio del Co Co Co, del "le faremo sapere", del "meglio di niente".

Diciamo, piuttosto, che la pandemia sta finendo di scoperchiare questo vaso di pandora, amplia i confini dell'impotenza percepita, ne mette in risalto le bizzarrie e, alle volte, le feroci contraddizioni, ne sospende i giudizi e costringe a cercare ricette. Il nostro 'vaccino' occupazionale. 

Per quanto mi riguarda, posso dirmi, tra molte virgolette, fortunata perché, dopo un pellegrinaggio di dieci anni nel turismo, (quando era florido), sono approdata nell'universo scuola, la mia più forte passione da sempre. Quando il 'drive' è una passione concreta, la direzione non può che essere giusta. Tra inquietudine e curiosità, il lavoro come lo volevo io, incrociando le dita, non mi è mai mancato, ma so di essere, a modo mio, un'eccezione. 

Nei silenzi di questo anno, ho riflettuto molto, da storica, sull'impatto sociale che la pandemia ha e avrà sui giovani che ho davanti ogni giorno e sui quasi non più giovani della mia età. Le due fasce che conosco meglio. 

È presto per fare bilanci, ma di certo questa esperienza ha ridisegnato i profili delle nostre priorità, dei nostri mondi interiori, ci ha regalato una condivisione allargata del beneficio del dubbio, un certo affidamento allo Stato, in assenza di valida alternativa, lo osserviamo con insolito interesse. 

La sofferenza fisica della malattia che imperversa intorno, ha rimescolate le carte delle nostre sensibilità e responsabilità, creando una certa attesa per il 'nuovo' mondo, quello post covid, non di certo la terra promessa, ma aspettiamo di vederlo, pazienza...

Avanziamo su terreni ancora più sconnessi, ma con un fatalismo diverso, che conta sugli affetti, seppure materialmente lontani, e sulle nostre gambe, appoggiate a superfici che hanno la consistenza della sabbia fina nella quale interriamo visioni e progetti, per i prossimi tempi, quando li andremo, finalmente, a riprendere.

La Storia di E.

Oggi E., una studentessa di prima, mi ha consegnato un'intervista molto particolare. Durante la giornata della memoria, avevo aperto il dibattito in classe credendo di avere davanti un gruppo di studenti troppo giovani per sentire le frequenze del dolore storico. Mi sbagliavo. Non solo perché alcuni di loro hanno nonni anziani che hanno vissuto la Seconda guerra mondiale e gliel'hanno raccontata, ma anche e soprattutto perché sembra proprio che il DNA conservi e trasmetta informazioni su ricordi di esperienze remote, che convivono, per lo più inconsciamente, dentro di noi, nel nostro patrimonio genetico, insieme al colore dei capelli, alla forma del naso e a tutto il resto. 

Nel travaglio della crescita, sulla superficie grezza di sensibilità giovanissime, l'eredità emotiva di vizi e virtù, di traumi ed entusiasmi, di ideali e tradimenti, di lealtà, onori, vigliaccherie, audacia e molto altro, ricompare come una casa affollata di spettri, negli occhi dei ragazzi. È un vissuto onirico sommerso, un flusso di coscienza simile a una nemesi, un testamento morale pluri autografato. 

Nel nostro sangue, insomma, scorrono, sottili, le combinazioni genetiche di antenati profondamente esistiti che respirano, come banchi di pesci, tra le branchie dei libri di testo.

 I nostri scheletri convivono con le scosse sismiche che hanno percosso il mondo europeo e che, latenti, ancora oggi lo sollecitano. 

I nostri sensi di colpa verso i Paesi in 'via di sviluppo', le nostre 'tolleranze', i nostri aiuti umanitari, i nostri piani di inclusione e di integrazione, le nostre idiosincrasie antichissime, le nostre diffidenze, le nostre lingue e culture continentali connesse ma distanti, i nostri sogni di rimozione puntualmente infranti, le nostre 'smentite' spoglie, ci parlano del debito che abbiamo con la Storia del mondo. Ed è un debito più importante ancora di quello pubblico... 

Il nonno di E. è passato per alcune delle più strazianti vicissitudini della Seconda guerra mondiale. È sopravvissuto e, anche grazie a questo, E. è venuta al mondo ed è seduta al terzo banco della mia prima media. Sorride spesso, o almeno credo, la vedo per lo più con la mascherina. È una ragazza solare e leggera, non l'avevo mai vista parlare come ha parlato oggi. 

Con le mani che le tremavano per la consapevolezza di quanto prezioso fosse ciò che era riuscita a fare, mi ha raccontato di come avesse convinto il nonno a recuperare quelle vicende dalla memoria, che neanche al figlio (il papà di E.) aveva mai raccontato.

- Curioso come il rapporto con i nipoti sia spesso più diretto e incondizionato rispetto a quello con i figli, ci sono meno nodi irrisolti probabilmente, meno frizioni. - 

Questo che è successo oggi si chiama fare Storia e me lo hanno insegnato i miei maestri... Ogni tanto penso a quella imprudente perplessità che sorge nel domandarsi perché si studi ancora la Storia e così tanta Storia nelle scuole italiane. Avverto questo giudizio miope sovente... durante i colloqui con i genitori o nelle conversazioni che mi è capitato di avere con persone tristemente estranee alla materia. 

Che dire... Sono fiera di essere italiana e sono tornata a vivere qui anche per questo, perché il sistema d'istruzione italiano riserva ancora un ruolo rilevante alla conoscenza del passato, in una società che è proiettata nel futuro anteriore, nella famelica progettualità, nel consumo preventivo. 

La Storia siamo davvero noi, i nostri amori, i nostri desideri, la somma dei nostri giorni. La Storia è nel territorio in cui viviamo, nella retorica dalla quale difenderci, nelle domande ancora da porci. 

Masha Amini e le lotte in Iran

 Ci sono le ragazze che sanno piegare le camicie, le  canottiere e anche le lenzuola grandi e anche da sole. Le piegano precise, un lato sul...